sabato 20 Luglio 2024

Elogio dell’ebrezza

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Che non è la ricorrente ubriachezza molesta

Lo spettacolo di un ubriaco è sempre indecente, volgare, sovente disgustoso. Se poi a dare questo spettacolo sono giovani e donne, come sempre più spesso ci capita di vedere, diventa addirittura segno dei tempi.
Tempi di decadenza e di dissoluzione di cui i giovani – ipotetiche speranze del futuro – e le donne – simbolo della condizione di una civiltà – sono, di fatto, le vittime.
Tuttavia ubriachezza ed ebrezza, per quanto spesso usate come sinonimi, sono parole che indicano due stati dell’essere profondamente diversi. La prima un abrutimento . La seconda una forma dell’estasi. Tant’è che la prima è segno della nostra modernità, la seconda, l’ebrezza, di epoche e mondi interiori lontani.
In Omero, come nei canti degli skaldi norreni, gli eroi non sono mai ubriachi. Sono ebbri di vino (o forte birra) e di desiderio di gloria. Certo, nell’Odissea, Polifemo si ubriaca con l’otre donatogli da Nessuno, e cade in un turpe sonno ruttando vino e brandelli di carne umana. Ma Polifemo non è un uomo. Per quanto figlio di Poseidone, è un qualcosa di arcaico, immane e bestiale. Gli eroi non si ubriacano. In Alceo si ritrovano nella Sala d’armi. Bevono e narrano storie. Orazio, che lo riprende ma non ha spirito guerriero, fa dell’ebrezza un elemento di quell’umor filosofico che aiuta ad affrontare la vita e a lenire le paure.
D’altronde il vino fu portato da Dioniso di ritorno dalla lontana India, o, secondo altre versioni, dal Caucaso. E Dioniso è appunto il dio dell’ebrezza. O meglio il dio con cui ci si congiunge nell’ebrezza. In un’estasi che utilizza il bere per trascendere i limiti dell’umano e della ragione ordinaria. Come ancora fra gli ultimi sciamani della Siberia. Il bere insieme alla musica e alla danza.
Nietzsche, cha a vent’anni si autodefiniva “vecchio filologo”, fa del dionisiaco, e quindi dell’ebrezza la polarità opposta alla ratio apollinea. La polarità da cui È la bellezza delle menadi che danzano, ebbre e stupende, i capelli lucenti come fuoco scomposti, gli occhi sfavillanti. L’opposto della compostezza classica, statica e atemporale.
È l’altro volto della nostra civiltà. La poesia di D’Annunzio ne l’Alcyone, specie nei Ditirambi. La musica di Igor Stravinsky. Forse ancora un’eco in certi concerti dei Pynk Floyd.
È la bellezza di una donna uscita da un dipinto di Waterhouse, che danza, lievemente ebbra in un raggio di Luna. Infinitamente più bella, e seducente, di qualsiasi Atena o modella immobile ed inespressiva.
È quell’aspetto della vita e della cultura che dovremmo recuperare. Perché la lucida, solare ragione, come insegna il Vico, finisce con l’uccidere il mito e la fantasia.
Generando una società ove non vi sono più menadi danzanti, ma solo tristi ubriachi prigionieri della solitudine. E della disperazione.

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