domenica 21 Luglio 2024

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La crisi degli adolescenti della pandemia tra casa e scuola, inadatte

Non è tutto finito. E neppure è tutto a posto come prima. Messa in secondo piano la paura della pandemia, è arrivato il momento di prestare maggior attenzione ai ragazzi: sono tornati a scuola, hanno ripreso ad uscire, ma non sono gli stessi di prima. Non ora almeno. Come noi adulti, anche i nostri figli possono avere difficoltà nella ripresa di tutto, dalle amicizie alla scuola.
“Spesso c’è un fraintedimento di fondo – dice Tania Scodeggio, dell’Istituto Minotauro di Milano che si occupa di adolescenza -: si tende a pensare a questo come un anno sabbatico, ma non è stato così. È stato un anno molto difficile per tutti. I dati lo dimostrano: c’è stato un innalzamento del livello di malessere da parte dei ragazzi. Lo dicono le neuropsichiatrie, i pronto soccorso: sono aumentati gli episodi di autolesionismo, i disturbi del comportamento alimentare. E la scuola non sempre è stata all’altezza nell’affrontare questa manifestazione di disagio da parte dei ragazzi”.

Accanto a casi virtuosi (sia in dad che in presenza), ci sono state anche occasioni perse.
“Perché i ragazzi – continua la psicologa – molto spesso si sono trovati a dover affrontare un recupero di competenze, voti, compiti in classe, con una frequenza molto imponente che ha messo in secondo piano i rapporti, il dialogo. La sensazione è che gli studenti, in molti casi, avessero bisogno di rientrare a scuola per ritrovare relazioni non solo con i pari ma anche con gli adulti, rispetto ai quali poteva esserci un’aspettativa di un tempo dedicato al recupero della relazione, alla possibilità di aprire un dialogo, una riflessione rispetto a ciò che era successo. La scuola ha, e ha avuto, una grande occasione per potersi offrire come uno spazio popolato da adulti significativi, con competenze specifiche, che potevano aiutare i ragazzi a mettere pensiero, riflessione, elaborazione in un periodo come la pandemia che ha sconvolto tutti”.
Tutti, anche i genitori.
“Questa è una generazione di ragazzi che non tende tanto ad opporsi, ad attaccare l’adulto o a trasgredire – continua Scodeggio -, quanto piuttosto a rivolgere rabbia e malessere verso di sé. Questa occasione doveva, o dovrebbe, perché si fa ancora in tempo, essere usata per parlare, confrontarsi su temi che spesso sono occultati, messi al bando dalla società. Adulti e ragazzi si sono ritrovati in un momento drammatico che ha attivato preoccupazioni, angosce, ansie. E per i ragazzi di oggi, nati e cresciuti in famiglie affettive e relazionali, questo ha comportato che in alcuni casi si siano fatti carico di fatiche e difficoltà degli adulti”.
Con un rischio evidente. “Il rischio è che i ragazzi si siano messi a tacere per non preoccupare o deludere chi già vedevano fragile. Per questo dico – conclude la psicologa – che la cosa fondamentale da fare ora sia avere uno sguardo attento e sintonizzato con loro. Non dobbiamo dare per scontato che vada tutto bene. Dobbiamo chiedergli come stanno vivendo la ripresa, il recupero delle relazioni, la fine dell’anno scolastico: ci può essere come una sensazione di riacquisizione di quello che si era perso, di nuove opportunità, ma può esserci ancora molta sofferenza e fatica a riprendere in mano i propri progetti, i propri sogni, la propria vita. Dobbiamo capire con quali cicatrici usciamo da questo periodo. Mettere molta attenzione su come stanno loro, senza vederli come trasgressivi o superficiali, sono tutt’altro: molto sensibili e profondi. C’è bisogno di un dispiego di energie adulte che se ne faccia carico e che non chieda subito implicitamente o esplicitamente di stare bene perché è tutto superato, tutto finito”.

Se nel rapporto genitori-figli volessimo trovare un piccolo merito alla pandemia, potrebbe essere questo: non solo ci ha messo di fronte alla sofferenza, costringendoci a farcene carico, ma anche ci ha dato l’opportunità di aprire un nuovo dialogo con i nostri figli. Un dialogo che ora deve continuare, per aiutarli a gestire le difficoltà, il dolore, i momenti di sconforto, i momenti bui: fanno comunque parte della vita e non ha senso nasconderli o far finta che non esistano.
Ma siamo, come adulti (sia genitori che insegnanti) preparati a farlo? Lo abbiamo chiesto a Sara Andolfi e Maria Clara Cavallini del Centro Tice, una squadra di psicologi e psicoterapeuti che ha sede in Emilia Romagna. Anche Andolfi e Cavallini lavorano nelle scuole.
“Nelle scuole – spiegano Maria Clara Cavallini e Sara Andolfi – non solo sono aumentate le richieste di partecipazione agli sportelli di ascolto psicologico da parte dei ragazzi, ma anche da parte delle famiglie. Ma non è successo perché i ragazzi sono peggiorati con la pandemia: è successo perché un maggior numero di genitori si è reso conto che poteva esserci un problema. Molti sono stati costretti a passare più tempo con i figli e forse per la prima volta si sono accorti delle loro difficoltà, quelle a cui probabilmente gli insegnanti avevano già accennato ma che non avevano magari colto. Speriamo che questa attenzione, non più obbligata ma volontaria, rimanga. I genitori devono restare parte del discorso scolastico”.
Anche qui però bisogna fare dei distinguo: perché l’attenzione verso i figli dovrà certo in alcuni casi migliorare, ma non dovrà diventare un’esasperazione.
“Perché si possano creare le basi di un benessere famigliare e di una sana collaborazione si dovrà riflettere su emozioni, pensieri, aspettative che si hanno sul figlio – aggiungono le esperte del Centro Tice -. Non possiamo pretendere che nostro figlio sia attento in dad, non giochi ai videogiochi, partecipi a tutte le attività sportive, studi molto e vada a letto presto. Sono troppe richieste: bisogna soffermarsi su cosa può avere senso per il benessere del ragazzo”.

Veniamo alla scuola. Per capire come sono tornati in classe gli studenti.
“C’è stata più solitudine, si sono amplificate le problematiche che prima c’erano già – dice Cavallini -. Negli adolescenti sono comparsi rispetto allo scorso anno, al primo lockdown, sentimenti di colpa e inadeguatezza per non aver fatto abbastanza. Il livello di autostima, è molto diminuito negli studenti. Ci si confronta molto con quello che sono riusciti a fare gli altri. Non ho riscontrato molti casi di abbandono scolastico, quanto piuttosto di richiesta di passaggio a scuole più facili. In questo caso servono incontri con i ragazzi e i genitori per capire se è ragionevole modificare l’orientamento scolastico oppure lavorare su una presa di consapevolezza rispetto all’anno appena passato. Si fa una valutazione delle competenze emotive e didattiche”.
“Al di là di cosa possono fare i genitori, anche gli insegnanti dovranno adattare sia il modo di rapportarsi con gli alunni che le modalità didattiche – aggiunge Andolfi -. Dovranno recuperare tanto nel rapporto con gli studenti. L’insegnante che aveva già un bel rapporto con i suoi studenti prima della pandemia è riuscito ad essere vicino e sensibile alle difficoltà; i docenti un po’ meno sensibili hanno fatto più fatica a capire le reali necessità dei ragazzi. Investire più tempo sulla relazione è fondamentale per la scuola: non c’è solo la didattica”.
Spesso però non è funzionato tutto bene, a Milano ci sono state proteste nei cortili anche al rientro classe. “Tantissimi insegnanti hanno concentrato tutte le verifiche nel tempo in presenza. L’impatto psicologico è stato fortemente negativo per tutti, anche per chi ha lievi difficoltà nella gestione dell’ansia e dello stress. Gli effetti si manifesteranno e si sono già manifestati. Anche l’ansia per il voto non ha senso: i voti quest’anno non sono direttamente collegati alle ore spese, all’impegno dei ragazzi. Sarebbe più utile concentrarsi sul loro comportamento rispetto alla scuola, sulle competenze di base, nell’organizzazione del lavoro. Meglio dar peso alla competenza, all’atteggiamento e all’impegno rispetto che al voto in sé”.
Avrebbe avuto senso continuare con la scuola anche a giugno, come chiesto inizialmente da Draghi? Per Tania Scodeggio “poteva essere una buona occasione per ripensare alla funzione della scuola”.
Sara Andolfi e Maria Clara Cavallini sono più tranchant. “Se il tempo scuola fosse stato organizzato meglio, poteva almeno servire a diluire la corsa delle ultime settimane. Per come sono stanchi ora i ragazzi e gli insegnanti non avrebbe senso. Gli adolescenti non hanno alcun desiderio di stare all’interno del gruppo classe per ancora un mese. Sarebbe stato eccessivamente frustrante. Avrebbe tolto ulteriormente motivazione. Ha più senso puntare sulla socialità, su un’attività sportiva, su un’attività nuova. Ha più senso favorire le attività di gruppo, di socialità. Vanno recuperate le occasioni di crescita che i ragazzi non hanno potuto sperimentare nel lockdown. E va mediato, magari tramite il parent training l’utilizzo dei social e di internet dei figli. Tutto questo periodo ci ha anche fatto vedere come gli adulti siano ingenui sui rischi che corrono i ragazzi online. Ed è una cosa a cui si deve porre rimedio prima possibile”.

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