venerdì 19 Luglio 2024

A lezione di greco

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I riflettori su Atene si sono spenti di colpo.
Come se la risposta fornita dalla finanza e dalla politica europea avesse concluso la vicenda.
Le cose, ovviamente, non stanno così; e proprio ora che la canea degli slogan imbecilli si è affievolita, val la pena di affrontare la questione greca; anzi le questioni greche perché se ne intrecciano due o tre.

 

Le centrali in conflitto

Di certo la questione ellenica va letta nelle guerre finanziarie. Non è un mistero che i guardiani del dollaro e della sterlina, minacciati da una crisi che in Europa è infinitamente inferiore rispetto alle loro aree, abbiano profittato della speculazione pilotata di J.P. Morgan e Goldman Sachs, per provare ad affossare, o comunque indebolire notevolmente, l’area dell’euro.
Questo ha prodotto l’entrata in campo di formazioni contrapposte. Mentre Londra soffiava sul fuoco per cercare di dare una spallata alla valuta che così tanto ha contribuito a ridurre l’egemonia americana e, soprattutto, a far arretrare ovunque la Gran Bretagna, gli atteggiamenti europei cambiavano a seconda degli interessi particolari in campo. Le banche francesi avevano investito nell’Egeo 55 miliardi, quelle tedesche 30. Ecco perché, quindi, la linea di Sarkozy è stata per un intervento molto meno condizionato che non quello della Merkel.
Tuttavia  né la Bce né i due Paesi del Polo Carolingio potevano non trovare un accordo. Pena non soltanto il rischio di un nuovo rigetto dell’Europa alla periferia della politica, ma anche di un’avanzata pericolosa degli interessi cinesi, già dominanti sul Pieo e minaccianti Salonicco.
La soluzione sa di compromesso, anche perché si è usciti con un accordo compromissorio con l’Fmi. In effetti è un compromesso, ma la scelta blindata è dettata anche dal timore di fornire un precedente pericoloso nel caso di un sovvenzionamento esclusivamente europeo. Ciò avrebbe favorito le tentazioni lassiste e incoraggiato le manovre di sabotaggio, soprattutto londinesi.

L’esproprio

Un altro elemento è centrale nella questione greca, e questo a precindere da quale entità geo-economica esca vittoriosa dal conflitto. Si tratta della svendita del demanio ellenico e dell’accantonamento del cosiddetto welfare. La Grecia su questa china è in ritardo rispetto all’Italia che venne espropriata di gran parte del bene pubblico a favore di pochi oligarchi quando, oramai un ventennio fa, Prodi fece da liquidatore d’asta; un’asta cui i partecipanti erano selezionati in partenza.
Ergo i greci dovranno subire in un colpo solo lo choc dell’esproprio dei beni e della necessità di sfrondare il pachidermico sottogoverno. Se si calcola che da noi, in due decenni, ancora non si è concluso il processo che di certo non è risultato indolore, le prospettive elleniche rischiano di essere davvero fosche.
Il welfare democratico spesso (ma non sempre: si pensi a Svizzera, Austria, Paesi scandinavi) si è rivelato un fenomeno degenerativo producendo milioni di funzionari in strutture talvolta parzialmente efficaci (Francia, Germania, Spagna) talaltra semplicemente elefantiache, affossanti e terrificanti, come appunto in Grecia e in Italia.
Non essendo più legato ad un ideale di comune destino, né motivato da fierezza di appartenenza sociale o nazionale, il  welfare è diventato qualcosa d’incancrenente che dev’essere superato.
Non in logica liberista, beninteso, ma deve essere comunque superato.
E in ogni caso la nuova dimensione di allargamento delle aree economiche e di riduzione del potere reale – anche potenziale! – degli Stati nazionali li priva comunque della possibilità di tenere in piedi l’assistenzialismo clientelare su cui si è fondato a lungo il consociativismo in nazioni valvassine del potere Wasp.

Scenari inediti

Questi dati dovrebbero indurci a riflettere perché si aprono davanti a noi scenari nuovi.
Contrariamente a quanto affermano trionfalmente alcuni revanscisti dell’anticapitalismo, se è vero che alcune previsioni di Marx si confermano valide, se è vero che le soluzioni di Mussolini sono ancora le sole efficaci e d’avanguardia, è altrettanto vero che per esserlo  devono tener conto del cambio epocale (che non è solo ideologico o morale ma anche etologico e strutturale) e bisogna quindi reinventare, ovviamente sulla base di un archetipo, le soluzioni per il Terzo Millennio.
Il trionfalismo catastrofista di chi canta il de profundis del capitalismo, poi, è fuori luogo. La bancarotta sociale e quella istituzionale non sono affatto segni di debolezza capitalistica, semmai di rafforzamento del suo cannibalismo ipertrofico, così come è accaduto che le crisi abbiano arricchito e reso più forti le oligarchie più potenti.
Semmai è sugli effetti delle mutazioni in atto che si deve puntare in prospettiva.
E dalla questione greca qualche lezione da trarre c’è.

Zona euro

La lezione non sta tanto nel tenere conto che la potenza della zona euro è per noi indispensabile  mentre il suo declino (a meno che non coincidesse con un improbabile collasso mondiale) segnerebbe in prospettiva la nostra fuoriuscita da ogni ruolo.
Questo non esprime altro che un dato di tifo, cui peraltro in molti, travisati da letture complottistiche errate, non in quanto tali ma per come si sviluppano, o ammaliati da sirene ghettizzanti e astruse di una rabberciata vulgata controrivoluzionaria, si ostinano a sottrarsi.
La lezione è ben altra.

Il conflitto sociale

Il conflitto sociale oggi in atto è quello tra produttori e bottegai da una parte e speculatori e usurai dall’altra. Non è una novità assoluta ma oggi questa frizione sta assumendo toni e livelli di un certo rilievo. La storia c’insegna che nelle società borghesi l’alleato principale su cui speculatori e usurai hanno  contato è stato offerto dal parastato, dai funzionari, dagli assistiti.
Lo scontro intra-liberale si è così spesso tinto di aspetti “ideologici” favorevoli a questo o a quell’altro elemento sociale. Ultraliberisti, anti-tasse e protezionisti i produttori e i bottegai; socialdemocratici, ovvero fiscalisti, antiprotezionisti, anticorporativi, i funzionari in armonia con speculatori e usurai. E la propaganda politica dell’ultimo ventennio si è lasciata inquinare da questi maquillages che non corrispondono a nulla; non essendo mai stato qualcosa di sociale il parassitismo.
Questa contrapposizione si denota ovunque ci sia un reale scontro politico. L’antiberlusconismo, per esempio, è leggibile quasi totalmente così dal punto di vista socioculturale.
Ebbene: la nuova linea delle speculazioni sta rompendo di fatto l’alleanza oggettiva tra i funzionari, molti dei quali votati a futura disoccupazione, e i loro protettori di ieri.
Si delinea, quindi, una rottura nei rapporti di forza; chi la saprà saldare e come? Sono domande che dovremmo porci, possibilmente per darvi una risposta.

L’abdicazione dello Stato nazionale

Questa piccola rivoluzione negli assetti sociali va di pari passo con l’abdicazione di gran parte del potere reale da parte dello Stato nazionale.
Più d’uno salta su ora offrendo la formula magica preconfezionata, come la politica mussoliniana.
Non sa, questa gente, quanto torto nasconda la loro ragione.
Ragione perché Mussolini operò le sintesi pragmatiche, etiche e spirituali più avanzate, efficaci e innovative. Torto perché il problema non risiede, oggi, nelle formule politiche in quanto se un’istituzione non è in condizioni di metterle su non c’è niente da fare: da sola non le potrà varare.
E non si tratta solo di volontà o di cultura, ma di dinamiche storiche. All’epoca delle Signorie i Comuni devono trasformarsi.

Uno squadrismo

Ed è qui che dovrebbe entrare in campo l’insegnamento mussoliniano e il portato di tutti i suoi archetipi. A iniziare dallo squadrismo. Il quale, contrariamente alle iconografie dell’antifascismo, fu qualcosa di assolutamente inventivo, creativo e di largo consenso. Ebbene lo squadrismo sostituiva lo Stato ove questo era carente o addirittura assente. Lo fece transitoriamente perché c’erano, allora, le condizioni per (ri)costruire uno Stato nazionale mentre oggi è con una serie di novità importanti che bisogna confrontarsi: regionalismo, localismo, spazi europei e mediterranei e necessità di una nuova Auctoritas un po’ meno giacobina e un po’ più imperiale; un po’ meno buricratica e un po’ più cesarista.
Lo squadrismo di oggi dovrebbe consistere allora nell’andare a ricreare, in modo spontaneo, cooperativo, comunitario e persino corporativo, lo Stato sociale, per così dire dal basso, o meglio da ovunque, nell’alveo del nuovo panorama politico ed economico.
Può sembrare qualcosa d’utopico ma non lo è per niente: è sufficiente agire in qualunque contesto con solidarismo, decisione, allegria, orientandosi agli archetipi delle rivoluzioni nazionali.
Si possono allora realizzare realtà sociali che non necessitano di mungere le casse pubbliche; e realizzandole si darebbero nuovamente vitalità, organicità ed entusiasmo a due concetti che sembrano dimenticati, quelli di Popolo e di Nazione.
Con semplicità, con immediatezza, con pragmaticità.
Chi, invece, pensi di rispondere alla crisi – della società e dello Stato ma non del Potere – esprimendo slogan e dogmi s’illude di avere ragione ma non fa che sbagliare ancora; sia perché non ha la percezione del reale, sia perché pensa che non l’intervento ma il dogma sia risolutivo. Cose che non solo non funzionano ma non sanno neppur molto di mussoliniano in verità.
Non bisogna gridare “l’avevo detto” ma costringere gli altri a urlare sbalorditi “però, che si sono inventati questi!”

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