venerdì 19 Luglio 2024

Il tunnel di Sarajevo

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VII puntata, Sarajevo

E’ mattina presto quando ci incamminiamo per le strade di Sarajevo: poche automobili in giro, freddo e nebbia onnipresente. Cerchiamo le indicazioni per il ‘tunnel’, uno dei luoghi simbolo della guerra in Bosnia Erzegovina. Nel ’93 infatti, dopo l’indipendenza della Slovenia e il conflitto scoppiato in Croazia, lo smantellamento della ex Jugoslavia passava dalla definizione degli equilibri in Bosnia, dove le tensioni tra le tre etnie presenti, bosniaci, serbi e croati, sfociarono in una tragica guerra civile, che, secondo fonti bosniache, costò al paese 11mila vittime. Il tunnel è il simbolo della ‘resistenza’ di Sarajevo all’accerchiamento serbo: quasi un chilometro di galleria alta un metro e sessanta e larga un metro che venne scavata durante l’assedio per congiungere la città all’area neutrale dell’aeroporto. Un cunicolo che passava sotto la pista d’atterraggio dello scalo e del quale sono rimasti in piedi solo poche decine di metri.
Dopo aver visto quello che resta del tunnel, ci mettiamo alla ricerca del ponte Latino, che poi scopriamo essere a 500 metri dal Teatro Nazionale. Fu proprio qui che, quel fatidico 28 giugno del 1914, il nazionalista serbo Gavrilo Princip fece fuoco con la sua pistola uccidendo l’erede al trono dell’impero austro-ungarico, l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie Sofia, segnando così di fatto l’inizio della prima guerra mondiale. Ci teniamo a farci immortalare su quel ponte: in fondo è da lì che è partita tutta la storia dell’Europa e quindi del Novecento, ed essere qua ci dà una certa emozione. All’angolo della via, subito dopo il ponte in pietra, c’è il museo nazionale di Sarajevo, che ha all’esterno schermi che di continuo proiettano filmati rarissimi dell’attentato, con l’immagine dell’arrivo della carrozza e l’immediato arresto dell’attentatore. Le pietre sulle quali siamo sono le stesse di allora, e anche i palazzi: solo il ponte è stato recentemente restaurato e nel 1993 Princip, una volta acclamato, dichiarato terrorista. I tempi cambiano, evidentemente.
Sarajevo è una città a maggioranza musulmana. E’ una città molto bella, ricca di moschee, chiese ortodosse, ampi viali di foggia austro-ungarica: è un insieme di stili e culture diverse che la rendono unica nel suo genere e che le hanno fatto guadagnare nel recente passato l’appellativo di ‘Gerusalemme d’Europa’. Ne è trascorso di tempo da quando esisteva la Jugoslavia di Tito, prima fedele al comunismo sovietico, poi dissidente e infine espressione di un comunismo indipendente che non disprezzava i rapporti con gli Stati Uniti d’America.
Poco più di dieci anni dopo la morte del maresciallo croato, caduto anche il muro di Berlino, la Jugoslavia implose più o meno volontariamente, atomizzandosi pezzo dopo pezzo in vari Stati: Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Montenegro e ovviamente Serbia, con la capitale di un tempo, Belgrado. Parlare dei cambiamenti continui delle alleanze interne, delle guerre che nel corso dei secoli e fino ai nostri giorni si sono succedute in questa terra è un lavoro che non spetta a me. Sia per tempo, sia per spazio e attitudine. E soprattutto perché in fin dei conti non riguarda la missione in atto con l’Uomo libero e la Comunità giovanile di Busto Arsizio, associazioni con le quali siamo venuti fin qui esclusivamente per aiutare una minoranza etnica in uno Stato “nuovo”, non ancora riconosciuto da molte nazioni.
Quello che posso dire però è che i grandi spostamenti e le deportazioni interne ordinate da Tito per dividere religioni e culture al fine di meglio controllarle, con la morte del maresciallo e dell’ideologia su cui si reggeva il regime jugoslavo, si sono dimostrati scelte esplosive, che hanno trovato peraltro un’ulteriore miccia negli interessi d’Oltreoceano, ancora una volta improntati al principio del ‘divide et impera’. E, con il vergognoso assenso dell’Europa, una nazione è stata messa nelle condizioni di non poter esercitare la propria sovranità.
E poi c’è la geopolitica, come in tutte le guerre. La posizione strategica della Jugoslavia come porta verso Oriente ha i suoi benefici, anche per meglio controllare il traffico di droga che, dal vicino Oriente, transita per il Kosovo verso le rotte del ricco Occidente. Stesso motivo, peraltro, che portò gli Usa a intervenire in Afghanistan. E anche lì i talebani, come oggi l’Uck nel Kosovo, dividevano proventi, ruoli e traffici.
Una delle figure più belle di uomo e di combattente a difesa del proprio popolo e della propria storia l’ho trovata nel condottiero afghano Massoud. Il Leone del Panshir, che in piena guerra fredda tenne testa per più di 13 anni al potentissimo esercito russo, venne assassinato due giorni prima dell’attentato alle Torri gemelle proprio da quegli stessi talebani soci in affari degli Stati Uniti. Massoud non era un fondamentalista. Era musulmano, come musulmani erano Saddam Hussein, Arafat, Nasser: grandi politici e uomini di Stato che la propaganda ha disegnato come dittatori, assassini, spalleggiatori di terroristi integralisti, omettendo che i modelli di Stato a cui si ispiravano erano laici e non teologici e che il più delle volte nel mirino degli integralisti c’erano proprio loro.

Il fallimento economico occidentale e la perdita del lavoro per migliaia di europei, l’immigrazione incontrollata, la reazione del mondo arabo ai soprusi subiti da chi punta al livellamento delle differenze e al controllo totale del traffico di droga e delle risorse geologiche con la creazione di un unico grande mercato stanno alimentando il mostro dello scontro di civiltà. Anche quello chiamato erroneamente “il nostro ambiente” in tutta Europa sta cadendo nella trappola, aderendo a campagne anti-islamiche dai finanziatori occulti, che porteranno ancora una volta alla giustificazione di massacri di migliaia di innocenti e al consolidamento del modello americano tanto odiato e agonizzante.
Cerchiamo di restare lucidi. La nostra risposta deve essere politica e non religiosa. Il ruolo che ci spetta è quello della costruzione di nuovi modelli economici incentrati sul rispetto della differenze e su principi condivisi: ‘essere mediterraneo’ significa incarnare un ruolo di mediazione e di guida, e non essere complici di sfruttamento, genocidi e traffici di varia sorta.

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