venerdì 19 Luglio 2024

Distruggere l’Italia

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I cellulari con le schede telefoniche lituane – “è una cosa particolare da lassù per mantenere la segretezza, è proprio lì il bello, non sono tracciabili per niente” – non sono serviti a granché. E nemmeno i pittoreschi nomi in codice per capirsi (il Lupo, Panatta, lo zio Tom), o le comunicazioni via pizzino alla Provenzano ma in salsa tecnologica, cioè con le notizie riservate caricate su chiavette usb da scambiarsi e da distruggere al posto dei bigliettini di carta. Sei mesi di indagini del secondo dipartimento anticorruzione della Procura di Milano ritengono di aver ugualmente afferrato il bandolo di un sistema nel quale grandi aziende italiane dell’ingegneristica e delle costruzioni stanno pagando tangenti estero su estero a top manager dell’Eni per essere ammesse a far parte di appalti da miliardi di dollari: quelli che il cane a sei zampe, come stazione appaltante su delega statale dell’Iraq e del Kuwait, dal 2010 sta non solo contribuendo a realizzare ma direttamente organizzando «chiavi in mano» rispettivamente in uno dei più grandi giacimenti di petrolio al mondo (l’iracheno Zubair, vicino a Bassora) e in quello non meno ricco di Jurassic Field nel nord del Kuwait.
È questo il denominatore comune di un nugolo di perquisizioni che ieri, in molte città italiane ma anche in Svizzera, Gran Bretagna e Israele, sono state contemporaneamente svolte dalla Guardia di Finanza su ordine del pm Fabio De Pasquale, forse quello che in questo momento a Milano sta più facendo fruttare i contatti, costruiti negli anni, con colleghi stranieri e organizzazioni internazionali.
È la prima volta che sotto la lente della magistratura finisce l’Eni della gestione dell’amministratore delegato Paolo Scaroni: la precedente inchiesta sulle tangenti pagate a politici della Nigeria da un consorzio internazionale franco-nippo-americano-italiano – sfociata per il gruppo Eni in una transazione da 365 milioni di dollari negli Stati Uniti con il Dipartimento della giustizia e la Sec (cioè la Consob americana), in una da 20 milioni con la Nigeria, e in Italia in un processo a 5 ex manager Snamprogetti in corso ma prossimo alla prescrizione – riguardava infatti gli anni dal 1994 al 2004.
Ora in questa nuova indagine, che oltre a Iraq e Kuwait investe anche la controversa (e già finita nel mirino di un’indagine) attività dell’Eni nel consorzio internazionale per il giacimento di petrolio di Kashagan in Kazakhstan, l’amministratore delegato dell’Eni non è indagato come persona fisica. Ma Eni spa, prima società per capitalizzazione nella Borsa italiana e quinto gruppo petrolifero mondiale, è indagata come persona giuridica – in base alla legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle società per reati commessi dai dirigenti nell’interesse aziendale – per l’ipotesi di corruzione internazionale. Reato al quale, secondo l’ipotesi accusatoria, sarebbe finalizzata l’associazione a delinquere che la Procura contesta per ora al vicepresidente di Saipem spa, Nerio Capanna, e al capo del progetto Zubair in seno all’Eni, Diego Brachi, nonché a tre intermediari come gli ex manager del settore Massimo Guidotti, Stefano Borghi e Enrico Pondini. Sull’altro versante, quello cioè delle aziende che avrebbero promesso o già versato quote di tangenti per aggiudicarsi i mega-appalti, accertamenti sono in corso su colossi dell’ingegneristica come Bonatti (gruppo da 6 mila dipendenti), Ansaldo, Renco, Elettra Energia ed Elettra Progetti.
È infatti anche una delle prime volte in cui, stando a quanto sinora portato a conoscenza degli indagati durante le perquisizioni ieri negli uffici delle società e nelle abitazioni delle persone, gli inquirenti avrebbero già rintracciato flussi finanziari su conti all’estero riconducibili a alti dirigenti del cane a sei zampe, e acquisito la prova almeno di alcune consegne di denaro da una azienda a top manager Eni che hanno un ruolo cruciale nell’assegnazione degli appalti in Iraq e Kuwait. Due partite enormi sia per le conseguenze economiche, sia per le implicazioni di geopolitica.
Basti ricordare che il 16 dicembre 2010 era stato il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini a presenziare alla firma alla Farnesina del contratto da un miliardo e mezzo di dollari tra la Saipem e la società kuwaitiana Kharafi per l’esplorazione, la produzione e il trattamento di idrocarburi nel campo a nord del Kuwait destinato a sfornare 150.000 barili al giorno; mentre alcuni mesi prima, il 22 gennaio 2010, era stato Scaroni a volare a Bagdad per siglare l’intesa più significativa mai conclusa dall’Eni nel più importante paese petrolifero oltre all’Arabia Saudita, e cioè per firmare l’impegno (20 miliardi di dollari di investimenti in 25 anni, 700.000 barili al giorno da 68 pozzi entro il 2013) del consorzio internazionale formato al 32% da Eni, al 23% dall’americana Oxy-Occidental Petroleum Corporation e al 18% dalla coreana Kogas-Korea Gas Corporation insieme a due società petrolifere di Stato in Iraq, la South Oil Company e la Missan Oil Company.
L’Eni è stata accusata delle pratiche comuni che compiono tutti i suoi concorrenti. La lunga primavera mediterranea guidata da Washington attacca sfrontatamente l’Italia nei suoi gangli vitali.

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