giovedì 18 Luglio 2024

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Con Draghi si ristruttura il potere assicurandosi continuità

Donato Menichella, Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Draghi: la “genealogia episcopale” del potere italiano dell’ultimo settantennio può, in una certa misura, essere riassunto dalla continuità tra quattro figure di elevato valore nella storia contemporanea del Paese. Gli uomini chiave attorno a cui si è costituito un asse di influenza, una rete informale e un consolidato pacchetto di prassi e ritualità che hanno contribuito a regolare la vita delle burocrazie strategiche nazionali, trasformato due di esse, il Tesoro e la Banca d’Italia, nei cuori pulsanti dello Stato profondo nazionale, tessuto assieme al Quirinale le fila del potere duraturo, non sottoposto alla caducità dei cicli politici e alle fortune dei leader.

Il romanzo del potere in Italia
La stagione di nomine inaugurata da Mario Draghi con le scelte per Ferrovie dello Stato e Cassa Depositi e Prestiti cambia solo una parte, per quanto rilevante, dell’affresco delle partecipate pubbliche che di questi assetti rappresentano la proiezione più diretta ma istituisce al contempo una chiara svolta nella prassi. Lo Stato torna al centro, le istituzioni azioniste di riferimento o titolari della centralità strategica nei confronti delle aziende partecipate si riappropriano delle loro prerogative di controllo e coordinamento, la fibra pubblica si testa alla prova della sfida della ricostruzione materiale e sociale del Paese, travolto nell’ultimo anno dalla pandemia di Covid-19. I mesi del governo Draghi hanno portato a un sostanziale ralliement di un compatto blocco di potere innervato attorno alle istituzioni chiave della vita economica nazionale, formato da figure oggi presenti nelle burocrazie strategiche (Alessandro Rivera, Ignazio Visco, Fabio Panetta per fare alcuni nomi), nel governo (Daniele Franco, ma anche i ministri chiamati a gestire il Recovery e i nuovi riferimenti per i servizi), nella cabina di regia di Palazzo Chigi o nell’inner circle di Draghi (Francesco Giavazzi, Franco Bernabé, Giuliano Amato, Paolo Scaroni, Gianni De Gennaro). Dimostrando la solidità della lezione dei predecessori morali e culturali del premier sulla necessità di costruire una continuità operativa in termini di gestione delle istituzioni.
Abbiamo citato Menichella, Carli e Ciampi in quanto figure che, pur avendo trascorso larga parte della loro carriera fuori dall’agone politico tradizionale, avevano ben chiara la necessità per l’Italia di costituire, in forma trasversale, una classe dirigente dotata di canoni politici chiari, di visione prospettica e di una capacità di vigilare e promuovere l’interesse nazionale.

Menichella, Carli, Ciampi: i predecessori di Draghi
Menichella, direttore generale dell’Iri in era fascista, fu governatore della Banca d’Italia tra il 1948 e il 1960 e attuò le politiche monetarie di sostegno alla grande fase di programmazione dello sviluppo economico messa in campo dai leader democristiani formati sui principi del Codice di Camaldoli, alla cui stesura Sergio Paronetto, allievo di Menichella, contribuì assieme a figure del calibro di Giorgio La Pira. Carli guidò Via Nazionale nei quindici anni successivi, fino al 1975, diresse Confindustria dal 1976 al 1980 e fu ministro del Tesoro nel governo Andreotti VII (1989-1992), e con la sua visione d’insieme ha plasmato buona parte della classe dirigente del mondo economico-finanziario contemporaneo. Draghi ha in lui e in Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia tra il 1979 e il 1993, premier dal 1993 al 1994 e presidente della Repubblica dal 1999 al 2006, figure chiave per la sua formazione.
I tre si trovarono a lavorare in squadra negli ultimi anni di vita di Carli, quando Draghi era appena giunto al Tesoro come direttore generale e Ciampi stava per esser chiamato a Palazzo Chigi. Non a caso quella dei “Carli boys” è stata l’ultima squadra di amministratori pubblici, boiardi di Stato e alti funzionari dotati di una visione d’insieme strategica.
Figure come Menichella, Carli, Ciampi agirono, presero decisioni cruciali per la vita del Paese, compirono anche errori di valutazione senza mai perdere la bussola dell’interesse nazionale e della necessità di garantire alla fibra dell’amministrazione pubblica solidità e rafforzamento. La fine della Prima Repubblica ha gradualmente fatto evaporare buona parte dei tentativi di creare, dentro o fuori i partiti, esperienze di classi dirigenti trasversali paragonabili. Il partito dei draghiani è in tal senso uno degli ultimi capisaldi, e non a caso il metodo inaugurato dal premier sulle nomine mira a selezionare per le burocrazie strategiche e i ruoli chiave figure di assoluta affidabilità, che alle competenze assommino l’esperienza e il cursus honorum di una carriera che ha portato con sé contatti professionali, preparazione alle sfide, visione.
Che si parli di Dario Scannapieco, scelto per guidare Cdp, o di Elisabetta Belloni, chiamata alla guida del Dis e dei servizi segreti, il canovaccio non cambia. L’obiettivo è portare gli uomini giusti al posto giusto, creare le condizioni perchè gli apparati dello Stato e le società partecipate siano, col coordinamento del Tesoro e della Banca d’Italia, le fucine dei Menichella, dei Carli, dei Ciampi, dei Draghi di domani. Boiardi di Stato dotati di qualità politiche, non meramente tecniche. Grand commis, per usare un’espressione alla francese, che sappiano comprendere le logiche delle istituzioni senza cadere nella palude degli intrallazzi tra i palazzi di potere di Roma.

Plasmare una nuova classe dirigente
La Seconda Repubblica, in tal senso, è stata contraddistinta da diversi casi in cui la gestione del potere nei posti chiave è sembrata rispondere a una logica spartitoria. Ma sul fronte della scelta per istituzioni quali i servizi e le partecipate i partiti politici, pur non riuscendo a produrre una classe dirigente paragonabile a quella di formazioni esistenti ai tempi della Prima Repubblica, hanno saputo rispettare la necessità di trattare questi apparati come istituzioni bipartisan. L’ascesa dei Cinque Stelle a forza di governo nel 2018 e la nascita dei due governi Conte ha, in tal senso, stravolto le regole del gioco: i pentastellati hanno incentivato un meccanismo che ha privilegiato smaccatamente le fedeltà di partito alla qualifica professionale nella corsa alle nomine pubbliche, hanno dimostrato una voracità di poltrone che fa impallidire qualsiasi ambizione di partiti rivali della recente stagione politica, interessandosi a distribuire non solo le poltrone di ad e presidente delle partecipate, ma perfino ogni singolo posto nei consigli, ogni poltrona nelle commissioni di vigilanza. Tutto questo in barba a qualsiasi principio che vorrebbe l’amministrazione e i suoi gangli come centro apicale del potere. L’esempio stesso di questo processo è stato il premier “per caso” Giuseppe Conte, arrivato addirittura a costruire una fauta rete di relazioni personali.
Anche per questo, negli ultimi mesi, di fronte alla prospettiva di un collasso sistemico della Repubblica il partito di Draghi si è riattivato. Risvegliando una continuità di interessi, legami professionali e obiettivi sistemici plasmata dalle relazioni formali e indirette tra figure che hanno conosciuto esperienze personali e professionali in anni decisamente complessi per il Paese.  Parliamo di figure svincolate dal mondo dei partiti, con una grande esperienza internazionale, non direttamente riferibili al sottobosco del potere romano e con un chiaro collegamento con le strutture euro-atlantiche, in continuità con i cardini di riferimento dell’attuale esecutivo. Il canovaccio delle nomine sinora compiuto da Draghi concretizzatosi in un repulisti di figure legate alla vecchia era di Giuseppe Conte ha ricordato il valore dei legami profondi, della continuità del potere, della capacità di saper maneggiare le leve e i centri nevralgici del potere.
Non amiamo il termine “meritocrazia”, troppo spesso fuorviante: ma in continuità con quanto compiuto in passato da Menichella, Carli, Ciampi, padri di buona parte della classe dirigente che ha edificato la Repubblica contemporanea, Draghi ha riattivato il suo partito provando a dimostrare la necessità che non c’è necessariamente contraddittorietà tra il possesso di una visione politica e competenza personale. Per le partecipate, i servizi, i ministeri strategici, la risposta all’emergenza l’importante è capire quali siano le figure giuste da collocare al posto giusto. Capacità che solo chi viene da una tradizione culturale legata a figure capaci di dare del “tu” al potere può padroneggiare. E il miglioramento del capitale organizzativo e della capacità d’incidere degli apparati più strategici può, sul lungo periodo, fare sì che essi tornino ad essere la fucina di classe dirigente che sono stati per lungo tempo. Obiettivo su cui vale la pena scommettere.

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