venerdì 19 Luglio 2024

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altGli Usa via dall’Iraq. Hanno davvero perso?

Le truppe americane lasciano l’Iraq. Per la stampa occidentale hanno fallito.
Il che sarebbe vero qualora si prendesse per buona la ragione ufficiale dell’invasione: “esportare la democrazia”. Benché il nuovo regime iracheno sia dispotico e liberticida come ogni democrazia, non ne ha mutuato gran parte delle forme, il che probabilmente in quell’area, non ancora tele-addomesticata e tuttora ricca di selvatica sincerità, non si può fare appieno.
Se poi in quella “esportazione di democrazia” si voleva leggere una normalizzazione, una pacificazione, un calo di tensione, il fallimento è palese. In sette anni di occupazione le vittime si contano a centinaia di migliaia. Un Paese che, durante Saddam, era divenuto una vera e propria Nazione, è ora preda di odi tribali, clanici e religiosi. Durante la “dittatura” al governo partecipavano clan, tribù e confessioni diverse (sunniti, sciiti, cristiani) e la Sinagoga era aperta e frequentata pur essendo, l’Iraq, l’unico Paese arabo a non aver mai firmato la pace con Tel Aviv.
Se quelle annunciate fossero state davvero le motivazioni dell’invasione americana, non si potrebbe non concludere che questa, politicamente, economicamente e in costo di vite umane, sia stata un fallimento.
Le ragioni reali erano però diverse. Si doveva spezzare un rapporto energetico e politico privilegiato tra Bagdad e l’Europa, in particolare con Parigi e Berlino, e favorire le riserve petrolifere americane a discapito delle nostre. Questo obiettivo, chiaramente definito dall’ex vicepresidente statunitense Cheeney, è stato centrato da Washington.
Il secondo obiettivo, quello che la Casa Bianca ha in comune con la Knesset, ovvero la disarticolazione delle forze socialnazionali e delle relazioni euro-arabe, è stato colto trionfalmente.
Non è un caso che la spartizione irachena e la gestione del terrore omicida sia stato condiviso dagli americani, dagli israeliani e dagli iraniani: gli interessi anti-arabi e anti-socialnazionali di tutti e tre erano del tutto coincidenti. Nelle strategie americane e israeliane, inoltre, un punto essenziale è sbandierare lo spauracchio del “fondamentalismo islamico”, ampiamente foraggiato – nelle diverse forme – dalle due potenze atlantiste, oltre che da Teheran, da Islamabad, da Rabat e da Riad. Questo serve a tenere l’Europa psicologicamente sotto scacco, a trasporvi la tensione sulla dorsale balcanica e a mettere fuori gioco nel Vicino Oriente le eredità nasseriane e baatiste.
Anche questo obiettivo è stato trionfalmente colto dagli invasori. E qui sono nate le prime difficoltà.
Difatti gli israeliani hanno alzato le pretese e aumentato le influenze locali giocando in simbiosi con gli indipendentisti curdi. Ciò ha provocato reazioni a catena. In primo luogo essi sono entrati in rotta di collisione con Londra andando a occupare sue zone d’influenza. In secondo luogo la carta curda ha fatto innervosire non poco la Turchia, fino all’altro ieri fedele alleato atlantico nella regione e da un po’ di tempo in qua sempre più avviata ad un rovesciamento di alleanze.
In terzo luogo la conclusione del risiko regionale che per trent’anni, dietro insulti e minacce reciproche, aveva visto Tel Aviv e Teheran complici e ininterrotte compagne di merenda, ha mutato il quadro. Le due potenze hanno finito infatti col non avere più prede da rosicchiare insieme e così si sono trovate in attrito per la primissima volta dalla “rivoluzione islamica” ad oggi. Un attrito che potrebbe anche divenire conflittuale da quando Teheran si è avviata alla costruzione di centrali nucleari.
Quest’imbroglio sarebbe  digeribile per gli Usa che possono giocare separatamente le loro carte con Iran e Israele e approfittare della tensione (che favorisce molto più della pace certe costruzioni) per perorare ancor meglio la causa del pipeline Nabucco, destinato a tagliar fuori la Russia dall’Europa interrompendone la collaborazione energetica.
Ma qui rischiano invece d’incassare una sconfitta.
L’improvviso accordo tra Russia e Turchia, cui l’Eni e Berlusconi hanno dato un importantissimo contributo, hanno “bruciato” il Nabucco e accelerato i tempi per la realizzazione del gasdotto South Stream destinato a rendere complementari Europa e Russia e a dare scacco alla strategia americana.
E proprio da allora i talebani(?) hanno iniziato ad uccidere i nostri soldati in Afghanistan.
Solo su questo piano, comunque d’importanza strategica, non si puà ancor dire che gli Usa  abbiano vinto la loro guerra d’occupazione in Iraq. Dovranno quindi continuare a combatterla in Turchia, in Russia e in Italia e farlo con altre armi.
In Iraq non si può però purtroppo sostenere che abbiano fallito. L’Iraq lo hanno disintegrato.

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