Le truppe americane lasciano l’Iraq. Per la stampa occidentale hanno fallito.
Il che sarebbe vero qualora si prendesse per buona la ragione ufficiale dell’invasione: “esportare la democrazia”. Benché il nuovo regime iracheno sia dispotico e liberticida come ogni democrazia, non ne ha mutuato gran parte delle forme, il che probabilmente in quell’area, non ancora tele-addomesticata e tuttora ricca di selvatica sincerità, non si può fare appieno.
Se poi in quella “esportazione di democrazia” si voleva leggere una normalizzazione, una pacificazione, un calo di tensione, il fallimento è palese. In sette anni di occupazione le vittime si contano a centinaia di migliaia. Un Paese che, durante Saddam, era divenuto una vera e propria Nazione, è ora preda di odi tribali, clanici e religiosi. Durante la “dittatura” al governo partecipavano clan, tribù e confessioni diverse (sunniti, sciiti, cristiani) e la Sinagoga era aperta e frequentata pur essendo, l’Iraq, l’unico Paese arabo a non aver mai firmato la pace con Tel Aviv.
Se quelle annunciate fossero state davvero le motivazioni dell’invasione americana, non si potrebbe non concludere che questa, politicamente, economicamente e in costo di vite umane, sia stata un fallimento.
Le ragioni reali erano però diverse. Si doveva spezzare un rapporto energetico e politico privilegiato tra Bagdad e l’Europa, in particolare con Parigi e Berlino, e favorire le riserve petrolifere americane a discapito delle nostre. Questo obiettivo, chiaramente definito dall’ex vicepresidente statunitense Cheeney, è stato centrato da Washington.
Il secondo obiettivo, quello che la Casa Bianca ha in comune con la Knesset, ovvero la disarticolazione delle forze socialnazionali e delle relazioni euro-arabe, è stato colto trionfalmente.
Non è un caso che la spartizione irachena e la gestione del terrore omicida sia stato condiviso dagli americani, dagli israeliani e dagli iraniani: gli interessi anti-arabi e anti-socialnazionali di tutti e tre erano del tutto coincidenti. Nelle strategie americane e israeliane, inoltre, un punto essenziale è sbandierare lo spauracchio del “fondamentalismo islamico”, ampiamente foraggiato – nelle diverse forme – dalle due potenze atlantiste, oltre che da Teheran, da Islamabad, da Rabat e da Riad. Questo serve a tenere l’Europa psicologicamente sotto scacco, a trasporvi la tensione sulla dorsale balcanica e a mettere fuori gioco nel Vicino Oriente le eredità nasseriane e baatiste.
Anche questo obiettivo è stato trionfalmente colto dagli invasori. E qui sono nate le prime difficoltà.
Difatti gli israeliani hanno alzato le pretese e aumentato le influenze locali giocando in simbiosi con gli indipendentisti curdi. Ciò ha provocato reazioni a catena. In primo luogo essi sono entrati in rotta di collisione con Londra andando a occupare sue zone d’influenza. In secondo luogo la carta curda ha fatto innervosire non poco la Turchia, fino all’altro ieri fedele alleato atlantico nella regione e da un po’ di tempo in qua sempre più avviata ad un rovesciamento di alleanze.
In terzo luogo la conclusione del risiko regionale che per trent’anni, dietro insulti e minacce reciproche, aveva visto Tel Aviv e Teheran complici e ininterrotte compagne di merenda, ha mutato il quadro. Le due potenze hanno finito infatti col non avere più prede da rosicchiare insieme e così si sono trovate in attrito per la primissima volta dalla “rivoluzione islamica” ad oggi. Un attrito che potrebbe anche divenire conflittuale da quando Teheran si è avviata alla costruzione di centrali nucleari.
Quest’imbroglio sarebbe digeribile per gli Usa che possono giocare separatamente le loro carte con Iran e Israele e approfittare della tensione (che favorisce molto più della pace certe costruzioni) per perorare ancor meglio la causa del pipeline Nabucco, destinato a tagliar fuori la Russia dall’Europa interrompendone la collaborazione energetica.
Ma qui rischiano invece d’incassare una sconfitta.
L’improvviso accordo tra Russia e Turchia, cui l’Eni e Berlusconi hanno dato un importantissimo contributo, hanno “bruciato” il Nabucco e accelerato i tempi per la realizzazione del gasdotto South Stream destinato a rendere complementari Europa e Russia e a dare scacco alla strategia americana.
E proprio da allora i talebani(?) hanno iniziato ad uccidere i nostri soldati in Afghanistan.
Solo su questo piano, comunque d’importanza strategica, non si puà ancor dire che gli Usa abbiano vinto la loro guerra d’occupazione in Iraq. Dovranno quindi continuare a combatterla in Turchia, in Russia e in Italia e farlo con altre armi.
In Iraq non si può però purtroppo sostenere che abbiano fallito. L’Iraq lo hanno disintegrato.