giovedì 18 Luglio 2024

La Moldavia nel mirino

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Una neutralità difficile e un’indipendenza quasi impossibile

Balcani, eterna polveriera d’Europa. Mentre gli occhi di diplomatici, risolutori di crisi e giornalisti sono nel Serbia-Kosovo, poltergeist latente della defunta Jugoslavia, un altro leviatano dormiente è stato risvegliato dai venti di instabilità fuoriusciti dallo scrigno di Pandora del XXI secolo, l’Ucraina, il 24 febbraio 2022. Un leviatano rispondente al nome di Moldavia, huntingtoniana periferia sospesa tra due civiltà, Occidente e Russia, dove un giorno potrebbe essere scritto un nuovo capitolo delle guerre russo-americane.

La Moldavia è il jolly della Russia
Tra Russia e Stati Uniti è partita a scacchi. Entrambe le potenze giocano con lo sguardo rivolto ad uno scacco matto dalle implicazioni globali, la conformazione del sistema internazionale, ma i loro schemi sono differenti: la prima vede in una riaffermazione egemonica tra Europa orientale e Mar Nero un imperativo, i secondi vorrebbero riorientare il loro focus dall’Eurasia occidentale all’Indo-Pacifico.
Nella consapevolezza del trasferimento di risorse cognitive della Casa Bianca dall’Europa all’Asia, con la prima lasciata nelle mani del duo UE-NATO, la Russia ha ingegnosamente alzato il livello della tensione laddove gli unilateralismi diplomatici – da parte occidentale – possono far poco: i Balcani. Duplice l’obiettivo: distrarre (il blocco UE-NATO dall’Ucraina) e negoziare (con gli Stati Uniti). Ai posteri la sentenza sul risultato.
Distrarre e negoziare. Questo è il contesto in cui si inquadrano le cicliche crisi nelle terre insofferenti dell’albanosfera e della serbosfera, da Pristina a Banja Luka, e la resurrezione dell’irrisolta questione moldava, emblematizzata dal fermento in Transnistria, dalla diffusione di una maccartistica paura rossa a livello di società e dal crescendo di tensione tra presidenza (filoccidentale) e opposizione (filorussa).

La Clădirea piange, il Cremlino sorride, la Casa Bianca osserva
Non si possono capire origini e ragioni delle dimissioni dell’esecutivo guidato dall’europeista di ferro Natalia Gavrilița, durato un anno e mezzo, senza un breve riepilogo dei principali accadimenti occorsi lungo la Mosca-Chișinău a partire dall’inizio della guerra in Ucraina. Riepilogo riassumibile in e descrivibile con una parola: escalation.
Il 2022 moldavo è stato protagonizzato dal prosieguo del braccio di ferro tra la presidenza Sandu e il Cremlino per la Transnistria, il “Donbas moldavo”, dove si trova un dispositivo militare russo dal lontano 1992. Suddetto è composto da circa 1.500 soldati che, ufficialmente in funzione di mantenimento della pace, fanno da guardia ad uno status quo che impedisce il completo ingresso della Moldavia nel blocco occidentale e ne perpetua la permanenza in un incerto e volatile limbo. Status quo nel quale sguazza la Russia, oggi più che mai decisa a capitalizzare il ricco patrimonio di conflitti congelati ereditato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Né russosfera né eurosfera, ma neanche NATO – giacché la Transnistria non lo permette –, la sorella minore di Romania è intrappolata in una zona grigia che la rende inevitabile vittime delle circostanze. E l’avvio del processo di emancipazione dalla dipendenza da gas naturale russo, per mezzo del neonato gasdotto Iași–Ungheni–Chișinău e dal crescendo di importazioni da acquirenti alternativi, non è servito a risolvere la miriade di problemi a forma di cappio al collo, della Moldavia, nelle mani della Russia.

La strategia di Maia Sandu
La Moldavia non sarà una seconda Ucraina, perché una donbassizzazione della questione transnistriana è poco praticabile per una serie di ragioni – tra le quali le barriere geografiche (che impedirebbero un adeguato rifornimento di armi e soldati ai separatisti) e il rischio di un’escalation incontrollabile ai bordi dello spazio NATO –, ma potrebbe diventare un’altra Bielorussia: uno stato fantoccio.
Le dimissioni del governo Gavrilița si inseriscono nella grand strategy di Maia Sandu, una statista formatasi tra Harvard e New York, e con ottime amicizie nel Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, che ha contezza dei pericoli posti alla sicurezza nazionale dalle quinte colonne di Mosca: i Socialisti di Igor Dodon – storica eminenza grigia della politica moldava –, i Comunisti di Vladimir Voronin, la galassia extraparlamentare legata alla metropolia di Chișinău, il reame oligarchico e le forze disgregatrici – transnistriani e gagauzi.
La Moldavia è un campo minato, sotto ogni tassello potrebbe celarsi una bomba, richiedente cautela e previdenza. Perciò la decisione di Maia Sandu di chiamare alla guida dell’esecutivo Dorin Recean, titolare degli Interni in due governi, le cui conoscenze, competenze ed esperienza in difesa, intelligence e sicurezza lo rendono adatto al ruolo di katéchon: colui che trattiene le forze che vorrebbero la destabilizzazione della Moldavia.
La Moldavia non sarà una seconda Ucraina, ché geografia e realismo non lo consentono – per ora –, ma potrebbe diventare una nuova Bielorussia – attivando le quinte colonne per rovesciare dal basso, in apparenza genuinamente, delle due Clădire? –, oppure una Jugoslavia in miniatura – via Transnistria e Gagauzia. Il governo Recean, nato all’ombra di un presunto golpe sventato – e di un clima da pace di piombo iconizzato dalla partita a porte chiuse tra Sheriff Tiraspol e Partizan Belgrado causa la possibile presenza di agenti provocatori negli spalti –, dovrà impedire di ognuno dei suddetti scenari e traghettare la Moldavia fuori dal limbo, verso un porto sicuro.

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