sabato 20 Luglio 2024

L’avvenire del Sultano

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Dopo la vittoria elettorale

Turchia dopo le Elezioni. Un risultato che ha fatto spendere fiumi di parole e non senza buone ragioni, visto il ruolo strategico che Ankara riveste: tradizionale ponte tra Asia ed Europa, storico presidio dei confini orientali della NATO, e, oggi, cardine imprescindibile per tentare da un lato di debellare la minaccia dello Stato Islamico, dall’altro per tentare di costruire nuovi equilibri in tutto il Medio Oriente. Tuttavia ad ascoltare e leggere i grandi Media italiani si rischia, in questi giorni, di restare frastornati: nomi, sigle, ridde di ipotesi contraddittorie, celebrazioni, analisi che ora enfatizzano la vittoria di Erdogan, ora la minimizzano, allarmi per presunte minacce alla democrazia, e chi più ne ha, più ne metta… insomma, un groviglio difficile da districare. Un labirinto, dove, per orientarsi, può forse tornare utile questa, sintetica, “legenda”.
1. Recep Tayyip Erdogan. Leader storico dell’Akp, il Partito di ispirazione islamica “moderata” che guida la Turchia da dodici anni. Oggi è Presidente della Repubblica, e, come tale, avrebbe dovuto tenersi fuori dall’agone elettorale. Invece è sceso in campo, con tutto il suo peso ed il suo prestigio, per cercare di rimediare al risultato elettorale dello scorso 7 Giugno che aveva visto, per la prima volta, l’Akp perdere la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale, costringendolo, dopo infruttuosi tentativi di coalizioni con i partiti dell’opposizione, ad indire nuove elezioni a soli sei mesi di distanza. Il risultato lo ha premiato, ridando all’Akp la maggioranza assoluta, 315 seggi, abbastanza per governare, ancora una volta, in solitudine. Ma non sufficienti per poter modificare la Costituzione turca in direzione presidenzialista – su modello statunitense – come era nei disegni di Erdogan.
2. Akp. Il Partito del Progresso e dello Sviluppo. È il partito di ispirazione islamica che siamo soliti definire “moderata”, ma che, recentemente, viene accusato da molti Media occidentali di simpatizzare con il radicalismo jihadista e addirittura con lo Stato Islamico. In realtà le sue radici affondano nella tradizione religiosa e culturale turca, il cui Islam presenta caratteri profondamente diversi da quello arabo e, soprattutto, dalle correnti radicali salafite e wahabite. Un Islam illuminato dal misticismo dei Sufi, meno legato a forme dottrinarie rigide e più aperto alla modernità per retaggio della storia ottomana. Nel tempo è divenuto il rappresentante, oltre che dei ceti popolari e di quelli delle province interne, anche e soprattutto della nuova classe media, della borghesia imprenditoriale che, pur essendo tendenzialmente “laica”, vi ha visto la forza politica capace da un lato di dare stabilità al paese, dall’altro di promuoverne lo sviluppo economico ed industriale. Tanto che, nonostante le difficoltà degli ultimi anni dovute a riflessi della crisi internazionale, , la Turchia è divenuta uno dei paesi industriali emergenti secondo le stime di tutti gli analisti economici e finanziari, quei paesi che vengono sintetizzati nell’acronimo MIKT (Messico, Indonesia, Korea, Turchia) inventato dalla Goldman Sachs per significare le potenze industriali dei prossimi decenni. Questa convergenza di interessi ha fatto del Akp un potentissimo collettore di voti, ed ha permesso ad Erdogan di mobilitare l’elettorato trionfando alle ultime elezioni. Tuttavia non si deve credere che sia un partito monolitico, totalmente dominato da quello che i Media chiamano “il Sultano”. In effetti è una forza con diverse anime, e, oltre ad Erdogan, vi è anche un altro uomo forte: l’ex Presidente Abdullah Gul che incarna l’anima più aperta al dialogo e più disponibile all’accordo con le altre forze politiche minoritarie. Gul al momento sta alla finestra, ma potrebbe tornare in campo se l’irrigidimento della politica dell’attuale Presidente e del suo capo del governo, Davutoglu, rischiasse di provocare un crescente isolamento di Ankara sulla scena internazionale e di acuire le tensioni interne.
3. Rapporti con l’Islamismo radicale. La Turchia è sostanzialmente esente dall’infezione islamista, e solo 150 cittadini turchi – secondo stime dell’intelligence statunitense – militano nelle file dell’IS. Per inciso, molti meno di quelli di origine danese. È vero che Erdogan ha tentato, dopo le Primavere Arabe, di instaurare rapporti privilegiati con la Fratellanza Musulmana araba e, soprattutto, con la sua “casa madre” egiziana ai tempi del governo al Cairo di Morsi, poi rovesciato dal golpe militare del generale Al Sisi. Questo rispondeva alla strategia, delineata da Davutoglu, di fare della Turchia il paese guida del mondo islamico sunnita; strategia volta sia a contenere le mire di Teheran – guida degli sciiti – sia quelle dei Sauditi, che finanziano le ali più radicali (salafite) del mondo sunnita. Per altro va ricordato che anche Barack Obama, con il discorso del Cairo ad inizio del suo primo mandato, aveva cercato di aprire una linea di dialogo con i Fratelli Musulmani. Questa politica di Ankara, certo, ha raffreddato i rapporti con Israele, ma va riconosciuto che era volta a favorire un’evoluzione positiva dell’islamismo, cercando di conciliarlo con i modelli della modernità occidentale così come è avvenuto, appunto, in Turchia,
4. Ankara ha sempre osteggiato l’avanzata dello Stato Islamico e la diffusione del radicalismo jihadista. Tuttavia la sua azione è stata, per un certo tempo, frenata dal timore di subire attentati sanguinosi nel suo territorio, e dal rischio che Washington volesse promuovere l’indipendenza del Kurdistan proprio per contrastare le milizie del “Califfo”. Da Luglio, finalmente, l’esercito turco è entrato massicciamente nel conflitto siriano colpendo con decisione le basi dell’IS, ma, al contempo, chiedendo la testa di Assad. Per Ankara un antico nemico, che ha per molti anni finanziato e favorito il terrorismo del PKK curdo in territorio turco. Inoltre, dall’inizio della guerra civile siriana, la Turchia ha accolto ed ospitato oltre due milioni di profughi – tra i quali quasi trecentomila curdi – senza praticamente aiuti dalla comunità internazionali. Solo recentemente la minaccia che questi milioni di profughi dilagassero nei Balcani e di lì in Europa Centrale, ha spinto il Cancelliere tedesco Angela Merkel, in passato sempre ostile all’ingresso di Ankara nell’Unione Europea, ad aprire al dialogo con la Turchia, e Bruxelles a programmare interventi di aiuto economico per sostenere il costo dei profughi.
5. I Curdi. Il loro indipendentismo rappresenta un cronico problema per la Turchia, soprattutto per l’azione del PKK, il Partito Comunista Curdo, sorto negli anni ’70 ed eterodiretto dal Cremlino, via Damasco, per cercare di destabilizzare il bastione orientale della NATO ai tempi della Guerra Fredda. La guerriglia del PKK ha lasciato una lunga linea di sangue nella storia recente della Turchia, tant’è vero che la NATO lo ha inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali. Nell’ultimo decennio, però, le ostilità erano state sospese, ed il governo di Ankara aveva avviato un processo di normalizzazione e pacificazione, prevedendo di concedere un’ampia autonomia alle province curde. Accordo stabilito tra Erdogan ed il vecchio leader del PKK, Ocalan – detenuto in un carcere turco – che è saltato a causa degli effetti della guerra civile siriana. Dove i curdi dell’YPG, movimento fratello del PKK, inizialmente sono stati appoggiati dalla Turchia nella loro rivolta contro Assad; appoggio che adombrava il progetto di un Kurdistan turco-siriano sotto il protettorato di Ankara. Poi, però, l’appoggio statunitense all’YPG in funzione anti IS, ha rinfocolato le mire indipendentiste del nuovo gruppo dirigente del PKK – di rigorosa obbedienza marxista-leninista – che, giubilato Ocalan, ha ripreso con veemenza l’attività terroristica, seminando sangue e morte. Di qui la reazione della Turchia, le cui forze hanno cominciato a colpire con durezza i “santuari” del PKK in territorio siriano, e questo parallelamente all’offensiva contro lo Stato Islamico. Per altro, a determinare la ripresa delle ostilità da parte del PKK, è stata anche l’affermazione, nel giugno scorso del Hdp, il Partito Democratico dichiaratamente “filo-curdo”, che sembra avviarsi a parlamentarizzare, e quindi inserire nel gioco democratico, le istanze dei circa quindici milioni di curdi cittadini della Turchia. Un processo che, nel tempo, potrebbe sottrarre il ruolo di rappresentanza al PKK, che resta pur sempre espressione minoritaria. Ed è anche per questo che la leadership del movimento ha deciso la ripresa delle azioni terroristiche.
6. Prospettive future. Erdogan ha, dunque, a disposizione una maggioranza assoluta solida, ma non tale da permettergli di modificare la Costituzione. Inoltre l’Akp si è rafforzato soprattutto drenando voti ai nazionalisti del Mhp, eredi dei famosi “Lupi Grigi”, mentre i kemalisti, laici e democratici, del Chp si sono leggermente rafforzati. A questo punto molto dipenderà dalla dialettica interna allo stesso Akp, dove non mancano, come dicevamo, componenti che non concordano totalmente con la linea del Presidente e del premier Davutoglu. Inoltre determinante potrebbe essere un’effettiva apertura alla Turchia delle porte di Bruxelles, che andrebbe ad ancorare più saldamente Ankara agli interessi europei ed occidentali.
“Avevamo un progetto di attentato contro il Bataclan perché i proprietari sono ebrei”. Questa frase, agghiacciante alla luce della presa di ostaggi e della carneficina andata in scena venerdì sera, è stata pronunciata negli uffici della DCRI (il servizio segreto interno francese, ndr) nel febbraio 2011.

 

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